Intervista di Marco Geronimi Stoll con Adelgunde
Dunque, tu cominci come “vera scienziata occidentale”…
Sì, avevo due grandi ideali: la ricerca libera, e la presenza della donna nell’ambito delle scienze naturali. Ho studiato chimica alimentare, prima a Hannover, poi a Berlino – allora ancora “ovest”.
Durante studio e tirocinio ho conosciuto il lavoro all’Ente Federale della Sanità e nell’Ufficio d’Igiene.
Mi piaceva moltissimo: imparavo i metodi di analisi per controllare la qualità, trovare le sofisticazioni alimentari, gli ingredienti non ammessi…Dopo aver dato l’esame di stato volevo continuare sulla strada della ricerca, perciò scelsi di perseguire un dottorato, sempre all’Università Tecnica di Berlino.
Dopo i primi mesi entusiasti di un progetto di ricerca sugli aromi nella birra e nel caffè cominciai a sentirmi a disagio. Allora non ne capivo i motivi, li vedevi nella situazione esterna, il professore, alcuni colleghi con cui non mi trovavo bene, tensioni… Cominciai a guardarmi intorno e dentro.
Berlino Ovest in quegli anni post-sessantottini era parecchio vivace, no?
Era un fermento formidabile; c’erano molti obiettori di coscienza (dalla Germania ovest i ragazzi venivano a Berlino a prendere la residenza perché così erano esentati dalla leva obbligatoria); era tutto un pullulare di gente giovane e nuova che veniva a studiare o lavorare, di nuove iniziative culturali…
Poi ci fu la delusione politica, quando gli ideali politici del ‘68 sono stati frantumati: la RAF che aveva dato la svolta violenta alla politica (con cui pochi si immedesimavano) ha prodotto una delusione, una disillusione, un po’ come le Brigate Rosse da voi in Italia: chi crea terrore alla fine assomiglia al sistema che dice di combattere; aggiungi che il comunismo “vero” noi l’avevamo lì, dall’altra parte di un muro.
Così tutti vedevamo ancora, come prima, i mali della società, ma cominciavano a cercare nuovi tipi di soluzione. Tra cui la ricerca interiore, chiamiamola pure “spirituale”. Era il momento dei Beatles in India, cominciava il movimento dei Verdi, che era molto alternativo, non era ancora un “partito” come è oggi, c’erano le prime manifestazioni con le biciclette, si cominciava a parlare di energie alternative, si installavano le prime pale eoliche… Si stava diffondendo l’agricoltura biologica, la nuova psichiatria di Ronald Laing, Fritz Perls, David Cooper, Francesco Basaglia…
Quindi la pratica della meditazione si collega a queste risposte “diverse” alla crisi della politica…
Per gli altri non so, per me sì: proprio nel ’79 ho conosciuto il Maestro indiano Osho e la meditazione.
Mi ha toccato profondamente, sono diventata sua discepola, prima in una comunità vicino a Monaco e poi dopo in India, a Pune, e ci sono rimasta sei mesi.
Poi sono tornata nella comunità di Monaco ma mi sono trovata male; la ricerca spirituale ti può mettere molto in subbuglio, è un’aratura profondissima delle tue convinzioni, delle tue abitudini; dopo il mio ritorno quello che prima era normale mi era diventato insopportabile. Ovunque andassi mi trovavo sradicata, senza una “cornice”. Mai sarei tornata al lavoro di un laboratorio chimico, ho preferito pulire ogni notte i tavoli dell’Oktoberfest e fare lavoretti così.
Il 7 novembre dell’80 è stata la svolta, sono approdata in Italia. Con una coppia di amici siamo scesi – con l’idea di fuggire qualche giorno dall’autunno freddo e piovoso in Germania – per visitare una comunità vicino a Siena – allora si chiamava Sagar Ashram, dopo il nome è stato cambiato in Osho Miasto – che aveva cominciato a organizzare gruppi di ricerca interiore e ad accogliere visitatori.
Io ho sempre avuto un’anima un po’ da zingarella, appena sono arrivata ho subito sentito sì, questo è il mio posto. Soprattutto la donna che conduceva la comunità, Ma Prem Pratiti, mi ispirava fiducia e la sensazione che qui avrei ritrovato un mio equilibrio.
Il mio nome spirituale datomi da Osho è Ma Chit Ageya che vuol dire “coscienza dell’inesprimibile”. Questi nomi che agli estranei sembrano “strani” sono molto importanti: per ogni persona il nome non è una parola qualsiasi, ma ha un significato, vuole essere un’indicazione per la tua via, che ti accompagna e ti fa crescere dentro.
Lì ci sei rimasta a lungo? cosa facevi?
Cinque anni. Avevamo 130 ettari di terra, di cui 100 di bosco, 30 coltivati: la legna serviva per scaldare e le frasche per fare il pane; poi cucina, orto, falegnameria; all’inizio galline, capre e mucche, e anche le api. Eravamo vegetariani, nessuno si sarebbe sognato di ucciderli. Però, Pratiti aveva una sua sensibilità su questo che mi faceva riflettere sulla morte: diceva che dovremmo sapere uccidere con consapevolezza e compassione perché anche questo fa parte della vita. Lei era stata alcuni anni in un monastero in Tibet; lassù il cibo animale è una necessità, ma lo si mangia con rispetto e gratitudine per l’animale che ci dà la vita per cibarci. Per i tibetani l’animale che viene mangiato da noi umani, potrà reincarnarsi come essere umano. Anche per me la questione in generale non è soltanto il fatto di mangiare carne; in frattempo mi sono avvicinata all’approccio dei popoli indigeni che, come i tibetani, uccidono gli animali per pura necessità e con grande rispetto e gratitudine. Mentre nella nostra società vengono considerati soltanto una merce e spesso addirittura degli oggetti da poter sfogare la propria violenza e crudeltà, e questo è assolutamente inaccettabile.
A Pune ero passata da un grande sconvolgimento, come una casa vecchia che si abbatte; in Toscana c’è stata la ricostruzione: la campagna, i boschi, il paesaggio; tanta gente d’estate e quasi soli nei lunghi mesi d’inverno; andavamo molto in profondità, e gradualmente mettevo radici; i gruppi erano intensi e guaritori, prenderci cura dei partecipanti era un insegnamento grande e molto soddisfacente.
Avevamo delle regole precise, ognuno aveva il suo lavoro da svolgere, e poi tanto lavoro interiore: la mattina una meditazione attiva, a mezzogiorno il canto del mantra OM, e alla sera un’altra ora di esercizi/meditazione.
Una sera sì e una no Pratiti ci guidava in una pratica tibetana chiamata Kum Nye che, con esercizi che riguardano il corpo e la respirazione, porta a una crescita della consapevolezza. Le altre sere facevamo la meditazione Kundalini di Osho. Ma il lavoro su noi stessi non consisteva solo nelle meditazioni in questi orari precisi, ma tutta la convivenza, la dinamica nel gruppo, l’aprirsi gli uni verso gli altri, l’amore, gli attriti e conflitti… tutta la vita in questa comunità spirituale aveva come scopo crescita e trasformazione di chi si trovava lì, residenti, ospiti, partecipanti dei gruppi.
Dopo circa cinque anni ho sentito che anche quel periodo era finito, e ho voluto tornare per un po’ in Germania: a Colonia e poi a Monaco e Stoccarda nell’’85 e nell’’86.
Nell’85 è arrivato il grande crollo, lo scandalo in Oregon: i media descrissero Osho come un santone furbo che imbroglia i creduloni…
Beh, è sempre stato descritto così da chi lo giudicava il “sex guru”, ma in realtà non l’aveva mai incontrato.
Dev’essere stato molto doloroso per la vostra comunità
Certo, perché ci fidavamo di Sheela, almeno noi europei che eravamo comunità autonome e non vivevamo in Oregon; chi era dentro però aveva già capito che le cose non andavano più come prima e molti se ne erano allontanati.
In seguito molte comunità si sono sciolte, noi tutti abbiamo smesso di vestire di rosso e di indossare il “mala” (la collana con il simbolo di Osho).
Ancora una volta ho sentito che le cose importanti sono gli insegnamenti che ti restano dentro, non tutte le sovrastrutture ideologiche o organizzative. E ancora una volta il mio rifugio riparatore è stata l’Italia.
Ancora in Italia, cosa ti ha riportato qua?
Le api. Nell’81 un apicoltore Sanyasin lasciò i suoi 100 alveari alla comunità di Miasto, perché voleva trasferirsi in Oregon, e siccome in quel momento ero l’unica che era abbastanza libera, cominciavo a imparare questo lavoro. Mi fece un insegnamento di base di due mesi, e dopo per fortuna trovai un apicoltore vicino a Miasto che era molto bravo e disponibile a insegnarmi di più. Ero rimasta in contatto con lui, e quando dopo lo scioglimento della comunità di Stoccarda stavo pensando cosa fare, mi invitava a lavorare con lui e il suo gruppo di collaboratori in Italia. Così sono tornata, era l’8 marzo dell’86.
Chi non conosce le api forse non può capire come le api ti modifichino il modo di pensare e di sentire. C’è qualcosa che lega fortemente il mondo delle api e la meditazione.
Ora che anch’io bazzico api e apicoltori lo so benissimo, ma un anno fa non ci avrei creduto; prova a spiegarlo a qualcuno che non ne sa niente.
La prima parola che mi viene in mente è alchimia: il processo che le api realizzano è di trasformazione. Prendono un liquido zuccherino e lo trasformano in un alimento preziosissimo.
L’ape è un animale incredibile, Rudolf Steiner la definiva “creata per l’uomo”, infatti tutto ciò che produce è utilissimo a noi umani: miele, cera, propoli, veleno, la pappa reale, il suo corpo stesso, addirittura le scorie dei telaini – tutto è nutrimento e medicina per l’uomo.
E poi l’impollinazione; la frase attribuita ad Einstein che, se morissero le api in 4 anni sparirebbe l’umanità: forse non l’ha davvero detto lui, ma l’importanza delle api e degli altri insetti impollinatori per la nostra sopravvivenza è ovvia.
La compagnia di qualsiasi animale ti porta a comunicare con lui, e le api ti portano a comunicare con te stesso.
Quando lavoro con le api divento calma, vado in connessione col Tutto, è una meditazione, lavorare con le api. Mi è capitato qualche volta di andare a lavorare arrabbiata, per qualche motivo che mi faceva avere la luna storta: se ne accorgono subito, e pungono. O scappi via o ti calmi. Infatti in un attimo uscivo dalla mia rabbia e diventavo subito concentrata e calma.
È bello vedere come si muovono, la loro danza, c’è qualcosa di benefico. E poi c’è un insegnamento sui ruoli che hanno secondo l’età: quelle appena nate puliscono le celle, dal quarto al nono giorno sviluppano le ghiandole della pappa reale e nutrono la regina, poi fanno le guardiane, poi vanno in giro a raccogliere polline… non litigano, lavorano a decine di migliaia su un prato senza disturbarsi, è un flusso naturale.
L’ape regina non è più importante delle altre, la chiamiamo regina ma non comanda nessuno, il sistema si comanda da sé senza un regista: è un organismo perfetto, regolato dai feromoni. Rudolf Steiner trovava una somiglianza tra l’alveare e l’uomo: la cera corrisponde allo scheletro, le api corrispondono al sangue, la regina al midollo osseo che produce le cellule, … questa perfezione è un esempio, no?
Il tuo rapporto con Steiner e l’antroposofia?
Uno spirito grande che ha precorso i tempi e ci ha insegnato molto; penso soprattutto all’agricoltura biodinamica, e al suo approccio alla medicina. Ma ammetto che non sono riuscita a comprendere il suo pensiero filosofico, è proprio un altro vocabolario: ci sono delle sue pagine che per capirle devo rileggerle tante volte. Solo il libro sulle api, quello mi è piaciuto davvero molto.
Scoprendo il meraviglioso mondo delle api hai trovato anche l’amore
Sì, le api mi hanno fatto incontrare mio marito, un apicoltore, appunto. E ho trovato anche una collocazione geografica, perché dall’’87 vivo in Emilia.
E hai campato di apicoltura fino a quando non hai incontrato la voce?
No, quando sono nati i nostri due figli nel ‘92 e ‘94, ho deciso di ridurre il mio lavoro con le api al solo allevamento di api-regine per il nostro bisogno aziendale; così avevo il tempo per stare con loro. Dopo sei anni, però, sentivo il bisogno di avere di nuovo un mio lavoro, e visto che parlo tre lingue, ho cominciato a fare traduzioni, in collaborazione con delle agenzie.
Traducevo soprattutto manuali tecnici anche di una certa complessità. Così ho scoperto la mia mente tecnica: mi piaceva, ne ero avvinta, volevo capire, addirittura scoprivo degli errori nel testo da tradurre, mi è successo più di una volta.
Intanto continuavo a lavorare su di me, facevo gruppi, meditazione…
Come hai conosciuto il lavoro con la voce?
Come ho detto, le traduzioni mi piacevano e mi davano anche una certa soddisfazione. Ma dentro di me avvertivo una sensazione di superficialità, il lavoro prendeva la mia mente, ma non il mio cuore. Mi ricordo ancora come, nel 2006, durante una meditazione mi saltò su la domanda: “Che cosa c’entra il mio essere con questi manuali e testi ai quali dedico tanto tempo? Ho bisogno di un lavoro che venga dal mio cuore.”
Il nostro lavoro dovrebbe essere un’esperienza in cui si partecipa con tutto il proprio essere.
Infatti tre anni dopo è arrivata l’incontro col Soul Voice®, nel maggio del 2009.
Com’è successo?
Ero consapevole da sempre che avevo dei problemi a esprimere i miei sentimenti. Ero timida, e se mi capitava di dover parlare a più di tre o quattro persone andavo nel panico. Diciamo che cercavo la mia vocazione e non sapevo ancora che sarebbe stata una vocazione alla lettera: il richiamo della voce.
Avevo alle spalle molto lavoro sulla respirazione, spesso sonora: ad esempio ho sempre praticato la meditazione ‘Nadabrahma’: è una meditazione con l’emissione del suono “mmmmmmm” a bocca chiusa e dei movimenti delle mani, aiuta a sintonizzare l’intero organismo, porta armonia a tutto il tuo essere.
All’inizio del 2009 mi è capitato di leggere sulla rivista ReNudo un bell’articolo su Karina Schelde, la fondatrice di Soul Voice®, la quale avrebbe dato un corso di due giorni a Firenze. Ho subito sentito che qualcosa si muoveva dentro di me, e mi sono iscritta.
Era il mio primo passo, molto importante, sul percorso che poi ho intrapreso e che ha trasformato me stessa e la mia vita, e che continua a tirare fuori tutto quello che ho.
All’inizio non pensavo che sarebbe diventato il mio lavoro, facevo i training soprattutto per la mia crescita, ma via via ho capito che è veramente bello condividere la mia esperienza e così essere utile agli altri. Per me questo vuole dire “lavorare”: condividere. Certo che ci vuole anche ‘l’ala destra’, la parte materiale, cioè condividendo dal cuore quello che ho da dare, ricevo anche ciò che mi serve per vivere bene su questo piano tridimensionale.
Nel 2010 hai poi incontrato lo sciamano groenlandese Angaangaq, hai tradotto i suoi libri in italiano, e hai organizzato eventi per lui. Cosa puoi raccontare su questo incontro?
Sì, anche questo incontro è stato molto importante per me. Quando una mia amica mi fece vedere il suo primo libro – appena uscito in Germania nel gennaio del 2010 – mi colpì immediatamente la semplicità e veridicità delle sue parole, e sentì fortemente il desiderio di portarlo in Italia. Nell’autunno dello stesso anno lo incontrai in un seminario e sentivo che è una persona che ha da insegnare e da trasmettere qualcosa di molto importante.
Che cos’era, secondo te?
L’importanza del cuore, del vivere ‘in cerchio’, cioè guardandoci negli occhi senza giudizi, e il valore delle cerimonie nella vita. Infatti, con ‘cerimonia’ Angaangaq intende un gesto anche quotidiano – come per es. prepararmi una tazza di caffè – fatto con consapevolezza e amore.
Se ti chiedessi una cosa principale che è alla base di quello che fai…?
Qualche anno fa ho sognato Osho; io non credo a un sogno divinatorio, credo che sia un sogno psicanalitico, un riflesso del mio inconscio. Sogno Osho e gli chiedo “ma io cosa sto facendo qua ?” e lui mi risponde: “sei qui per svegliarti”. Lo guardo e gli chiedo “e gli altri?” e lui: “aiutali a svegliarsi”. Direi che questo è il mio lavoro.
Oggi mi trovo con questi due strumenti, due strumenti preziosissimi: gli insegnamenti arcaici degli indigeni eschimesi (non so perché proprio loro, ma comunque c’è un legame molto forte) e il Soul Voice® col suo metodo sistematico e ben organizzato.
Il mio manifesto è semplicemente questo: sono sulla mia strada ‘verso casa’, ho tanto da imparare, e intanto condivido le mie esperienze con gli altri e loro con me.
Una domanda cattivella: in questo compito di aiutare gli altri, non ti dai un ruolo presuntuoso?
Un fiore è presuntuoso quando fiorisce? Certo che c’è l’ego, è sempre in agguato, ma fa parte di noi. Ci sono cose che occorre dire, non credo che mi metto su un piedistallo, spesso anzi è una questione di pazienza. Condividere non significa che ti impongo qualcosa: io ti offro quello che ho, tu lo puoi prendere se lo vuoi, o no.
Se una persona viene da me per fare una sessione e percepisco che c’è una strada da seguire, non mi fermo certo per paura di gonfiare il mio ego. Tanto lo so che se si gonfia poi sarà sgonfiato, perché prima o poi l’ago che lo punge arriva sempre…
Io sento nel mio lavoro come una fioritura – ricorda che sono anche apicoltrice – più il fiore apre il suo colore e il suo profumo, più attira le api. E questa ‘licenza di presunzione’ che ho trovato in me, è anche qualcosa che merita di essere condiviso, perché davvero tutti abbiamo il diritto naturale di vivere la nostra vera essenza e di essere ascoltati.
Marco Geronimi-Stoll è comunicatore, pubblicitario disertore, creatore di smarketing – nonché un mio caro amico che mi ha dato tanti spunti e consigli. Andate a conoscerlo: www.geronimi.it/